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Un filosofo in un centro commerciale

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giovedì, 11 gennaio 2018 19:47

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Platone e Aristotele in un particolare della Scuola di Atene di Raffaello Sanzio
Rosario Pesce
Mettere un filosofo in un centro commerciale è una trovata geniale.
Nessuna persona potrà essere nel posto sbagliato come il teoreta di turno.
È evidente che il trionfo del consumismo e della relativa società, costruita su consumi a volte meramente voluttuari, rappresenta la fine della filosofia in senso classico.
Per millenni, i filosofi hanno ricercato entità astratte che potessero giustificare i fenomeni più diversi della natura, da quelli di tipo gnoseologico a quelli a sfondo morale.
Orbene, essere in coda per il pagamento, in un centro commerciale, è un’esperienza che spegne tutta la teoresi precedente.
Dalla cassiera iperattiva perché deve svolgere un’immensa mole di lavoro in pochissimo tempo al cliente distratto, che non riesce a reperire la carta di credito o che ha dimenticato di comprare l’oggetto più minuto della sua spesa, sono tutte queste scene ordinarie nelle quali viene ad imbattersi il povero cristo che ha studiato Heidegger o Hegel e che, ahimè, spera che la razionalità del mondo possa risolvere, finanche, le ragioni del ritardo della fila, ma si sa bene che - in tal caso - l’Idealismo non gli va, di certo, in soccorso.
E, poi, assistere a quelle splendide scene di coppie, che aspirano a fare compere condivise, che ovviamente non realizzeranno mai, per cui uno dei due coniugi, per lo più il marito, desiste, rifila la carta di credito alla moglie e se ne va al bar, nel centro commerciale, ad attendere i tempi ovvi per la consumazione del rito non più familiare.
In tal caso, la filosofia del Novecento non può, neanche, aiutare: tutte le riflessioni di Freud o quelle di Jung vengono a spegnersi al cospetto dei colori dei piatti da comprare o delle dimensioni dell’albero di Natale da dover allestire nel salotto di casa, con buona pace degli avvocati civilisti, il cui fatturato per cause di separazione non può che aumentare.
Ed, infine, la filosofia non può non verificare il suo fallimento, quando si esce dal centro, con l’auto magari parcheggiata a diverse centinaia di metri dall’uscita pedonale e con l’intera famiglia, cane e gatto compresi, che si contende la merce da dover trasportare: questo è mio, quello è di papà, quell’altro ancora è di mamma, insomma un momento di alta dialettica a fronte di un percorso di diverse ore spese all’interno di un cubo chiuso, dove si ascolta della pessima musica di sottofondo e le luci artificiali, spesso, danno fastidio agli occhi.
Ma, si sa bene che quello del consumismo è il rito sociale per definizione, a cui non possono, né devono sottrarsi gli uomini e le donne di buona volontà, che vogliono far incrementare i profitti della catena francese o scandinava di turno.
E la filosofia?
È naturale che essa passi in secondo ordine, ma è mai possibile che la teoresi del XXI secolo possa preferire la disquisizione intorno alle monadi di Leibniz allo scontro dialettico fra padre e madre sulla marca dei succhi di frutta o sulla scelta delle posate da impiegare per il cenone di Natale o di Capodanno?
Ci saranno, invero, tempi più felici per la filosofia, ma frattanto siamo tutti allegri e scanzonati consumatori in una società che non ci offre, purtroppo, molte altre occasioni di dialogo e di vita comunitaria e che moltiplica, invece, in modo drammatico quelle di nevrosi, individuale e collettiva.
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