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Sovranità nazionale e globalizzazione

lunedì, 09 luglio 2018 19:03

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Rosario Pesce
È evidente che, da anni, il vero tema del dibattito politico sia quello relativo ai limiti imposti alla sovranità nazionale dalla nuova ed imperante globalizzazione, che ha sottratto ampi poteri agli Stati, che in molti casi costituiscono la vera periferia nella rinnovata geopolitica dei poteri.
Negli ultimi venti anni, infatti, con la caduta di tutte le possibili barriere, sia fisiche che culturali, il vero centro del mondo non è più la comunità nazionale, ma il sistema stesso della produzione, che impone ritmi forsennati e regole perfino disumane, a volte, nella diversa allocazione delle risorse sia materiali, che umane.
Come, allora, riuscire a prevenire la reazione, che in parte già si è prodotta?
Le comunità nazionali si sono, infatti, chiuse nel “particolarismo” della loro identità, tentando di difendere ciò che non è più difendibile.
Infatti, il mercato è fin troppo potente e prepotente per ammettere che ci sia un potere, come quello degli Stati nazionali di un tempo, che possa essere in grado di contrastare delle logiche che possono giungere a violare quelli che, una volta, erano considerati diritti inviolabili del cittadino e del lavoratore.
Il danaro si sposta fin troppo rapidamente per determinare le sorti progressive di una regione del mondo anziché quelle di un’altra, per cui il legislatore arriva sempre in ritardo ed il ritardo diviene sempre più ampio e marcato.
Di conseguenza, gli strati più deboli della società, ma anche quelli che hanno iniziato a percepire una possibile propria fragilità, si sono rintanati nel loro “particulare”, prendendo ad issare la bandiera del populismo e della peggiore reazione, che un tempo si sarebbe definita di Destra e filo-nazionalista.
Per tale strada, non si può fare ovviamente un lungo cammino, perché diviene possibile, purtroppo, solo un conflitto politico fra Stati, che ormai sono stati espropriati delle loro competenze e delle prerogative, che discendevano, loro, da secoli di storia.
Non è un caso se, in tutti i Paesi occidentali, le classi dirigenti degli ultimi decenni del Novecento sono state, perfino in modo violento, messe da parte ed è emerso un nuovo ceto, che invoca le ragioni di un cambiamento, tanto necessario invero, quanto astratto e ben poco definito sia nel merito, che nel metodo delle scelte che vengono compiute.
In tal caso, a pagare il fio maggiore è sempre il più debole, per cui la vittima per definizione diviene l’extracomunitario, che viene in Occidente sperando di trovare un nuovo paradiso terrestre ed, invece, trova molto spesso l’inferno di una società post (o ex)-industriale sull’orlo di una profonda crisi di identità, oltreché in piena recessione.
L’effetto, quindi, della globalizzazione diviene la guerra fra poveri, fra i nostri poveri (più o meno vecchi) ed i nuovi poveri che provengono da un mondo lontano e che, inizialmente, credevano di poter coronare un sogno di libertà e di emancipazione dal bisogno sia materiale, che morale.
Ed il teatro di una simile guerra, indotta dal processo di globalizzazione, diviene il mare, dove muoiono centinaia di bambini e donne prima dell’arrivo nella terra promessa, e la strada, quella delle nostre città e metropoli, dove le bande di criminali e di disperati autoctoni si scontrano con quelle dei nuovi “desaparecidos” del Terzo e Quarto mondo.
Purtroppo, un simile spettacolo non può che divenire sempre più frequente e ridondante, a tal punto che, finanche, i Paesi del Mediterraneo, che si erano sempre distinti per l’ospitalità, stanno divenendo sempre più riluttanti verso la creazione di un rinnovato “melting pot”.
Certo, non sarà facile il percorso di costruzione di una società su tali premesse, ma la principale assente è la Sinistra, che dapprima ha assistito inerme (ed ha, finanche, applaudito) alla nascita della globalizzazione, credendo in modo fallace che si realizzasse il suo sogno di società più equa per tal via, e che oggi, spiazzata dagli esiti tragici che si sono prodotti, non è capace di darsi una nuova cultura e di ripensare, in modo compiuto, le categorie per continuare ad essere presente nella società e non solo nei salotti degli intellettuali e della borghesia.
La demagogia, il populismo non potranno che prevalere, continuando lungo un simile sentiero, creando delle disuguaglianze che saranno il frutto viepiù dei rimedi, che si tenterà di mettere in essere per riparare il male che si è già generato.
Ma, era davvero, questo, il mondo che i nostri avi hanno tentato di costruire, quando si sono rimboccati le maniche ed hanno fatto uscire l’Europa dai disastri del Nazismo e del Fascismo?
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