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Emilio Gentile: Rashomon a Palazzo Venezia

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mercoledì, 01 agosto 2018 08:00

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Fabrizio Federici
Rashomon a Palazzo Venezia. Così, con la giusta dose d'ironia, Emilio Gentile, tra i maggiori storici del fascismo, docente emerito alla "Sapienza" di Roma e socio dell'Accademia dei Lincei, sintetizza gli avvenimenti del 25 luglio 1943 - di cui è ricorso da poco il 75mo anniversario - e, soprattutto, le difficoltà che incontrano gli studiosi che vogliono ricostruirli nel dettaglio. Cosa che egli prova a fare nel documentatissimo saggio "25 Luglio 1943" (Bari, Laterza, 2018, pp. 288, €. 18,00).
Il riferimento a "Rashomon", lo storico film nipponico dei primi anni '50, centrato sulle diverse versioni che di uno stesso episodio criminale (l'agguato d'un bandito a una coppia di sposi in viaggio nel Giappone medioevale) danno, pirandellianamente, i protagonisti della vicenda stessa e un occasionale testimone, è più che calzante. Perchè della tempestosa seduta del Gran Consiglio del Fascismo che, dalle 17,15 di sabato 24 luglio 1943, sin oltre le due del mattino del 25, portò alla sostanziale messa in minoranza di Mussolini (arrestato poi, per ordine del Re, il pomeriggio successivo), a tutt'oggi conosciamo le linee generali della discussione e l'esito finale, cioè l'approvazione dell'Ordine del giorno presentato dal Presidente della Camera Dino Grandi. Ma non conosciamo ancora bene gli esatti contenuti di vari interventi, se siano state realmente pronunciate o meno alcune frasi importanti (come quella con cui Mussolini, alla fine della seduta, avrebbe reso consapevoli i gerarchi d'aver così provocato la fine del regime); e, soprattutto, le vere motivazioni del comportamento di vari gerarchi, già nei giorni precedenti la seduta.
Tutto questo, sottolinea Gentile, anzitutto perché - anche se può sembrare strano - non è mai esistito un verbale della riunione (non era la prima volta che capitava, con le sedute del Gran Consiglio). Nel dopoguerra, le principali ricostruzioni della vicenda fatte dagli storici si sono sempre basate anzitutto sulle testimonianze lasciate, in libri di memorialistica, da vari protagonisti di quella notte: come Dino Grandi (in "25 luglio. Quarant'anni dopo", Bologna, Il Mulino, 1983), Carlo Scorza, allora segretario del PNF ("La notte del Gran Consiglio", Milano, Palazzi, 1968), Tullio Cianetti (autore, la mattina del 25 luglio, di quella celebre lettera a Mussolini con cui, dissociandosi dall'adesione della sera prima all'O.d.G. Grandi, avrebbe salvato la vita al successivo processo di Verona del '44), e altri. Recentemente, tuttavia, informa Gentile, sono stati acquisiti dalla Direzione Generale degli Archivi del MIBACT, tratti dall'archivio del gerarca, già esponente del movimento nazionalista, Luigi Federzoni, i suoi appunti dal vivo sulla seduta, insieme a un resoconto dettagliato della stessa: un "quasi verbale", scritto, probabilmente, tra fine luglio e i primi d'agosto del '43.
Questo materiale, insieme ad altri appunti sulla seduta presi dall' ex-ministro di Grazia e Giustizia Alfredo De Marsico, pur non potendo ancor chiarire tutti i dubbi su quell'incredibile notte, permette però di fare molti passi avanti.
In quelle decisive settimane di luglio, mentre gli Alleati sbarcavano in Sicilia e iniziavano la lenta risalita verso Nord, almeno 3 erano i complotti organizzati per estromettere Mussolini dal Governo, nella speranza d'ottenere così dagli Alleati un trattamento piu' mite per l'Italia (e nell'incredibile sottovalutazione di quella che sarebbe stata la reazione dei tedeschi: che infatti, già il 26 luglio, in alcune zone del fronte, come la Jugoslavia occupata, si misero a disarmare i nostri reparti!). Primo complotto, quello appunto dei gerarchi dissidenti: Grandi (in possibile accordo sotterraneo con gli inglesi), Bottai (che su questo tema si sarebbe più volte confidato, negli anni '50, col giovane giornalista socialista Enrico Landolfi, fratello del futuro senatore del PSI Antonio), Federzoni e, in ultimo (con comprensibili, forti scrupoli di coscienza) Ciano, il "Giunio Bruto del fascismo". Poi, quello degli alti vertici militari (soprattutto Esercito) e delle forze di sicurezza (carabinieri, polizia), in probabile accordo con la Corona; infine,. quello attivato personalmente dalla principessa Maria Josè, in contatto con esponenti dell'antifascismo moderato come Ivanoe Bonomi.
Gentile si concentra sulla dinamica appunto della seduta del Gran Consiglio evidenziando anzitutto la forte ambiguità dell'Ordine del giorno Grandi: in sostanza un invito al Re a liquidare Mussolini - che avrebbe dovuto restituirgli la delega per il supremo comando della guerra restando, però (assurdità di diritto costituzionale) Capo del Governo - mascherato da un "Torniamo allo Statuto" in stile Sidney Sonnino 1898.
L'O.d.G. parlava, infatti, di restituire a tutti gli organi costituzionali dello Stato le loro effettive funzioni, oscurate da più d'un decennio di accentramento del potere nelle mani del Duce. Ambiguità che, rileva l'autore, potrebbe anche aver spinto lo stesso Duce a far votare l'O.d.G.: nella speranza o di togliersi, così, la grave responsabilità della condotta della guerra o, invece, di avere in mano una deliberazione da presentare immediatamente al Re per risolvere la crisi, contando d'averlo ancora dalla sua parte. O ancora, più semplicemente, Mussolini avrebbe deciso di porre in votazione il documento (cosa che non era obbligato a fare) pensando che la maggioranza dei gerarchi l'avrebbe respinto.
Questi gli interrogativi che restano ancora aperti sull'esatta dinamica di quelle ore che segnarono la storia del Paese. L'Autore evidenzia, infine, la strana abulia di Mussolini (alle prese, tra l'altro, coi ricorrenti problemi di salute) in quei giorni: quasi un inconscio "cupio dissolvi" (un po' come accaduto, migliaia di anni prima, al Nerone dell'estate del 68 d. C., che, intervenendo immediatamente, avrebbe potuto benissimo stroncare la ribellione di Sulpicio Galba).
Non possiamo, infine, non concordare con Indro Montanelli quando rilevava, anni fa, che, in definitiva, se un regime come il fascismo, lanciatosi in una guerra in realtà insostenibile e devastante per l'Italia perché legatosi in pieno al carro nazista, era caduto, lo si doveva soprattutto a questi gerarchi dissidenti: che con tutti i loro limiti, beghe interne, meschinità personali, avevano mostrato un indubbio coraggio. Quel che resta inaccettabile, è il modo tipicamente italiano - pieno di ambiguità, pasticci, voltafaccia, figure meschine (lo stesso Grandi era andato il 22 luglio da Mussolini per illustrargli il suo O.d.G., e ancora non sappiamo bene cosa si dissero!) - con cui tutto avvenne. Le vicende del 25 luglio avvennero in un clima sostanzialmente shakespeariano (vedi il "Giulio Cesare", dove appunto i congiurati, ancora il giorno prima delle Idi di marzo, cercano un possibile accordo con Marco Antonio, primo sostenitore di Cesare). Che preparò puntualmente la strada al dramma e alla vergogna dell'8 settembre, solo parzialmente riscattata dai primi caduti della Resistenza, a Roma, Napoli, e altrove.
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