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Popolo o ceto dirigente?

sabato, 12 agosto 2017 22:13

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Agorà di Atene: piazza dove si riunivano anticamente i cittadini ateniesi per legiferare - (https://it.wikipedia.org/wiki/Democrazia_ateniese)
Rosario Pesce
Su un tema così importante, abbiamo già scritto in passato, ma è giusto tornare a fare qualche riflessione su argomenti centrali per chi si interessa di politica e di istituzioni.
Sin dall’epoca moderna, infatti, le nozioni di popolo e di ceto dirigente sono apparse come termini di una contraddizione di non facile soluzione.
La democrazia si regge sull’uno o sull’altro?
Ovvero, entrambi sono pilastri su cui si regge l’edificio del moderno sistema rappresentativo, ma qual è la giusta mediazione fra il potere del popolo e la capacità di condizionamento delle classi dirigenti?
È evidente che l’evoluzione, in senso presidenzialistico, della nostra democrazia abbia fatto propendere l’ago della bilancia verso il popolo, visto che l’elezione diretta del vertice di un Esecutivo, qualunque esso sia, Stato centrale o Ente Locale, non può avvenire in assenza di un consenso di massa da parte degli strati popolari.
Ma, il potere delle classi dirigenti, negli stessi anni, non è diminuito; anzi, per effetto della progressiva delegittimazione, cui è andato incontro il ceto politico dopo gli scandali giudiziari, che ne hanno minato profondamente la credibilità, esso è cresciuto ed è divenuto molto più radicato di quanto non fosse nel corso del secolo scorso.
In primis, si è ampliato il concetto di classe dirigente, visto che in esso sono racchiuse molte categorie di professionisti: dai burocrati statali ai notabili, dagli intellettuali, che sono in grado di fare opinione, ai grandi mezzi di comunicazione, che ineluttabilmente condizionano i sentimenti popolari per effetto del potere mediatico, che essi possono dispiegare.
Pertanto, per effetto di una dinamica perversa, nel momento in cui il popolo è divenuto protagonista dell’elezione di Premier, Presidenti di Regione e Sindaci, il potere che funge da contrappeso non si è ridimensionato, ma è divenuto più pervicace, perché il sistema della democrazia diretta ha delegittimato, ulteriormente, chi è il destinatario del mandato popolare.
Quello dei ceti dirigenti è un potere sistemico, non è immediatamente visibile da chi non ha un occhio attento e, soprattutto, è un potere trasmissibile di padre in figlio, dal momento che, in molte situazioni contingenti, il notabilato può essere, appunto, trasmesso da una generazione all’altra al pari di una qualsiasi altra eredità.
In tale situazione, quindi, chi paga il fio maggiore è il potere politico, quello che, invece, un tempo era considerato “sacro”, visto che l’esponente, che riusciva a radicarsi nelle istituzioni, era in grado di mettere insieme il consenso popolare con il giusto sostegno dei poteri non democratici, che erano ancillari rispetto a quello di chi veniva eletto dal popolo sovrano.
La fine della politica, quindi, ha restituito un potere effimero al popolo ed uno sostanziale, invece, a quanti sono notabili o per natali o per competenze o per ruolo sociale e professionale.
Un’involuzione?
Molto probabilmente si, ma - nel contempo - non possiamo dimenticare che è cresciuto il divario fra popolo e ceto dirigente, cosa che preoccupa non poco, dal momento che l’accesso all’istruzione ed alla cultura è sempre più impedito da condizioni stringenti, che fanno crescere il numero di umili, clienti e diseredati, di quelli che, appunto, attraverso l’elezione diretta dovrebbero, invece, divenire protagonisti del loro processo di emancipazione e di progresso culturale.
Si è, forse, creata una grande finzione, per giustificare di fatto un ritorno ai regimi liberali di fine Ottocento?
Si è, forse, ricreata la condizione per l’elezione di tanti aspiranti despoti ed autocrati, che credono o si illudono di essere i fattori determinanti di un processo democratico, che invece semplicemente li annienterà, facendoli sacrificare sull’altare della misera autoreferenzialità e delle vanità personali?
Certo è che Mosca e Pareto potrebbero scrivere non poche pagine sull’Italia e sull’Europa del XXI secolo, ma l’assenza di intellettuali di quel livello non può che essere l’ulteriore segnale dei tempi che incedono verso esiti, che nel Novecento si credeva di aver scongiurato del tutto.
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