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IL PD e le classi dirigenti locali

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lunedì, 05 gennaio 2015 18:49

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Rosario Pesce
Il caso giudiziario scoppiato in Emilia, che vede per protagonisti entrambi i candidati alla Presidenza della Regione, Bonaccini e Richetti, i quali avrebbero dovuto sfidarsi nelle prossime primarie di ottobre, pone in evidenza un problema molto avvertito all’interno del PD: quello della formazione delle classi dirigenti nei territori.
Infatti, con il passo indietro, fatto da Richetti, e con quello che, probabilmente, potrebbe essere indotto a fare Bonaccini, il partito, che ha egemonizzato per settant’anni circa le sorti della regione più rossa d’Italia, si trova in forte ritardo nell’individuare il successore di Vasco Errani, a sua volta costretto a dimettersi dalla carica di Governatore a seguito di una condanna, non definitiva, per falso ideologico.
È ipotizzabile che, in un quadro simile, possa essere richiesto ad una personalità di specchiata moralità, come Graziano Delrio, di rinunciare al suo incarico governativo romano per essere investito della candidatura in Emilia, sottraendo così il PD ad un imbarazzo tanto evidente, quanto dannoso: è ovvio che, se l’indecisione non verrà risolta nel giro di pochi giorni, il perdurare di un contenzioso di tale importanza non solo può creare nocumento al partito a livello regionale, ma può danneggiare l’immagine del PD, anche, agli occhi della pubblica opinione non emiliana, che potrebbe tornare a nutrire – a torto – sentimenti diffusi ed autentici di avversione ed ostilità alla casta.
Il problema, però, della formazione della classe dirigente locale non è solo emiliano: infatti, in molte altre regioni, dove si voterà nella prossima primavera, tuttora il partito non ha individuato i candidati, che sfideranno gli avversari del Centro-Destra, perchè nessuno di quelli, che si sono proposti, sono destinatari di un consenso così ampio da rendere pleonastico il ricorso alle elezioni primarie.
Il caso campano, a tal proposito, è paradigmatico: in quella regione, come in altre, è molto alto il rischio che il candidato venga individuato a livello romano; passando, dunque, attraverso il vaglio successivo di un’elezione primaria di mera ratifica, il suo nome sarà proposto, poi, all’attenzione dell’elettore per la formalizzazione del dato politico.
In tale dinamica è presente un vulnus importante: l’ascesa di Renzi alla Segreteria Nazionale, nello scorso mese di dicembre, finora non ha determinato un’effettiva ricaduta sui territori, dove la classe dirigente è sostanzialmente, ancora, quella preesistente al trionfo renziano; d’altronde, il dato anagrafico di Sindaci, Presidenti di Provincia e parlamentari dimostra bene come la generazione dei quarantenni sia, tuttora, poco presente nei quadri dirigenti.
Pertanto, lo svecchiamento, che avrebbe dovuto essere la condizione preliminare del successo renziano, rischia di essere un dato che si costruisce solo “ex-post”, con conseguenze imprevedibili.
Infatti, si sovrappongono due spezzoni di classe dirigente, che sono incoerenti fra loro, dal momento che ciascuno di essi presenta un limite rilevante: per un verso, gli anziani hanno scarso appeal per il dato meramente anagrafico e perché, in passato, hanno subito sonore sconfitte, per cui la loro eventuale riproposizione sarebbe il segno tangibile di una debolezza di fondo; i giovani, invece, non avendo la visibilità mediatica, di cui ha goduto Renzi, quando ha scalato la Segreteria Nazionale, rischiano di ambire ad una leadership ancora gracile, per cui al primo incidente di percorso - come può essere un avviso di garanzia - inevitabilmente sono fuori gioco - forse in modo definitivo - come si è verificato in Emilia.
Allora, ci si domanda come possa formarsi la classe dirigente in regioni, comuni, province, dove il PD avverte l’esigenza di un rinnovamento radicale nella proposta di idee ed uomini; se nessuno fra quelli che aspirano ad acquisire il rango della leadership gode di un carisma così autorevole, da imporsi facilmente sugli altri, diventa ineludibile il ricorso ad un meccanismo di cooptazione dall’alto, che però segna la sconfitta della democrazia interna ad un partito e dell’idea stessa di politica di Renzi, per cui - come può succedere nella regione più rossa d’Italia - il Presidente del Consiglio si vedrebbe costretto ad invitare il suo principale collaboratore, Delrio, a lasciare ogni incarico governativo e a tornare sul territorio, accettando una candidatura non richiesta, la cui esigenza nascerebbe, unicamente, per porre rimedio all’emergenza creatasi e per limitare, dunque, i danni.
Ma, il medesimo percorso rischia di concretizzarsi in Campania, dove l’alto livello di difficoltà della sfida contro Caldoro impone che il candidato democratico abbia una propria visibilità, anche autonoma da quella renziana, mentre in altre regioni (il caso pugliese è quello più noto) il Presidente in pectore – il sindaco di Bari, Emiliano – può aspirare ad un largo successo, perché gode di una credibilità propria e di un curriculum rilevantissimo, maturato quando il ciclone del rinnovamento generazionale - voluto da Renzi - non si era abbattuto sul partito.
Il rischio è, altrimenti, sotto gli occhi di tutti: nella prossima primavera, potremmo avere un Presidente del Consiglio forte e saldamente in sella, nonostante la crisi economico-finanziaria, mentre in periferia il suo partito potrebbe trovarsi fuori dal governo di molte importanti realtà, così come è accaduto per moltissimo tempo a Forza Italia, che, negli anni ’90, vinceva sistematicamente le elezioni generali, per effetto della popolarità di Berlusconi, e perdeva la sfida in ambito locale, perché priva di una classe dirigente dotata di autonomia dal leader nazionale, visto che essa era composta, per lo più, dalla platea di collaboratori del Cavaliere, a cui mancava il radicamento a livello territoriale.
Se così fosse, si accentuerebbe il carattere “padronale” del PD, che si ridurrebbe ad essere il mero cartello elettorale del mentore nazionale, mentre nei territori la sua presenza diventerebbe sempre più residuale ed incapace di incidere sui meccanismi decisionali e di governo.
Si aspira ad un partito progressista con siffatti caratteri o si ambisce a costruire un partito-comunità dove, per ragioni di merito e credibilità personale, svincolati finalmente dall’anagrafe, il protagonismo delle migliori menti pensanti del PD sarebbe decisivo per rilanciare, dal basso, il Paese sempre più fermo ed asfittico?
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