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Il calcio ed il valore della sportività

lunedì, 16 febbraio 2015 19:53

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Rosario Pesce
Amare disinteressatamente lo sport non è cosa da poco, visto che, nella società odierna, si assegna un valore economico ad ogni attività, che l’uomo svolge.
Pertanto, le discutibilissime parole, pronunciate da un importante consigliere federale al telefono con un dirigente di una società di calcio di Lega Pro, non sorprendono, dal momento che, nonostante si parli spesso di fair play, sistematicamente gli attori calcistici tendono a dimenticare gli ideali più nobili, di cui pure dovrebbero farsi interpreti.
È indiscutibile che il calcio italiano stia attraversando il momento peggiore della storia recente: d’altronde, esso è un’azienda e, come tale, non può non vivere la medesima situazione di disagio, che l’intera economia nazionale sta passando.
Molti sodalizi, finanche nelle serie superiori, sono falliti o stanno per farlo, visto che gli introiti sono inferiori ai costi, che i dirigenti devono affrontare.
Il sistema non regge e, se non si realizzerà a breve una riforma radicale dell’ordinamento, si rischierà per davvero di vedere l’azienda calcistica prossima al default, solo con pochissime squadre in grado, almeno, di affacciarsi al panorama europeo, che invece dimostra di non soffrire le conseguenze della recessione mondiale.
Se si analizza il contenuto delle dichiarazioni di Lotito, esso non è immediatamente sconvolgente, ma ad inquietare è, certo, la forma adoperata, visto che nessun tesserato della Federazione può, invero, dire a terzi di aver suggerito al Presidente della Lega di riferimento di favorire la promozione di questa o quella squadra, in nome di un mero ritorno commerciale.
E, qui, veniamo al vero vulnus della questione: quanto valgono i principi sani dello sport, innanzitutto, per coloro che hanno la responsabilità di organizzare eventi assai complessi, quali possono essere i tornei calcistici delle massime serie professionistiche?
È evidente che, se si ascolta la registrazione del Presidente della Lazio, si arguisce che le motivazioni dello sport non albergano in alcun suo ragionamento, meramente volto ad individuare gli strumenti utili a massimizzare i profitti ed a rendere il fenomeno calcistico più appetibile per chi, nelle vesti di capitano d’impresa, ha interesse ad investire nel mondo del pallone. Parole - quelle di Lotito - molto ciniche, ma estremamente idonee a rappresentare, in modo lucidissimo, le ragioni di chi presiede il calcio italiano.
In virtù della mentalità, sottesa a quelle infelici espressioni, riportate dalle intercettazioni, non solo si svilisce Pierre De Coubertin ed il messaggio, che il Barone francese ci ha lasciato in eredità, ma soprattutto si rende palese il retroterra culturale di tutti coloro che hanno un analogo approccio, meramente materialistico, all’evento calcistico.
Infatti, a nostro avviso, le istanze di una morale molto ferma e severa dovrebbero essere ben più avvertite nel calcio, che in qualsiasi altro settore produttivo dell’economia odierna.
Il calcio educa, forma le menti dei nostri adolescenti: far intendere ad un giovane, che si avvicina al rettangolo di gioco, che l’unica vera molla è il dio danaro è, profondamente, diseducativo sia per chi sta portando a termine un lungo processo formativo, sia per gli stessi genitori, che, nello scoprire le qualità tecniche del loro figliolo, potrebbero essere spinti a ritenere di aver riportato alla luce il nuovo Eldorado.
Peraltro, l’Italia è, per definizione, la nazione delle cento città e degli altrettanti campanili, per cui ipotizzare - anche solo nel corso di una conversazione amena fra amici - che questo o quel centro urbano non potrà mai avere la propria squadra nella massima Serie per ragioni di cassa e di diritti televisivi, toglie al calcio italiano l’immagine di innocenza, di cui pure ha bisogno per recuperare punti e posizioni nelle graduatorie internazionali.
Certo, il Carpi o il Frosinone non potranno mai realizzare i medesimi introiti del Manchester United o del Chelsea, ma è vero – ed è ben più grave – che, neanche, il Milan o la Juve riescono, da qualche anno ormai, a produrre gli stessi utili delle società spagnole o inglesi più blasonate, a dimostrazione del fatto che il sacrificio della squadra di provincia di per sé non garantisce il successo economico né della Serie A, né di qualsiasi altro torneo, che possa organizzare la Lega o la Federcalcio.
Peraltro, gli Inglesi, che sono gli autentici maestri dello sport più amato al mondo, mettono in scena ogni anno un trofeo, corrispondente alla nostra Coppa di Lega, che vede per protagoniste le squadre delle categorie inferiori, le quali, molto spesso, arrivano finanche, in semifinale o in finale, a sfidare i clubs più prestigiosi della Premier League, riuscendo così a dare la giusta rappresentanza sportiva alle città più piccole del Regno Unito ed, al tempo stesso, a promuovere ingenti profitti, benché le squadre, che giungono a contendersi la vittoria, non abbiano tutte il medesimo seguito di tifosi, che possono avere le società di vertice del Campionato della Regina.
Forse, i nostri dirigenti dovrebbero andare a fare un bagno nel Tamigi, allo scopo di apprendere abitudini, che esaltano sia le ragioni dello sport, che quelle - altrettanto legittime - del business e del profitto?
Crediamo, invero, che la crisi economica degli ultimi anni abbia, purtroppo, reso ancora più ridondanti alcuni vizi, tipicamente italici, che oggi affiorano in tutta la loro drammaticità.
È ovvio che, se non si verificherà a breve un’inversione di marcia, il nostro Paese – e non solo il calcio professionistico – rischierà di morire per gli effetti di una clamorosa crisi di valori, che sarà, finanche, più grave di quella strettamente economica, che forse - come aveva ben capito Calvino nel corso del Cinquecento - ne è, solo, la forma fenomenica più chiara ed intellegibile.
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