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Il cinismo di Matteo Renzi

sabato, 21 marzo 2015 19:28

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Rosario Pesce
Le dimissioni del Ministro Lupi aprono una problematica di non poco peso: il responsabile delle Infrastrutture, infatti, si è dimesso per delle intercettazioni telefoniche disdicevoli, che non sono state, però, considerate dalla Procura di Firenze come sufficienti per la contestazione di un formale addebito.
Invece, all’interno del Governo, sono presenti ben quattro esponenti, che risultano indagati - sin dai mesi scorsi - dalla Magistratura.
Questi, almeno fino ad oggi, hanno continuato a fare il loro mestiere, senza che sia stato loro richiesto un gesto, come quello che - invece - ha realizzato Lupi.
Non trascurabile è, pure, il caso della Campania, dove alle prossime elezioni regionali correrà un candidato Presidente - quello in quota PD - che figura come destinatario di una condanna in primo grado per un reato, seppur, minore.
Come si vede, non è stato applicato il medesimo metro in tutti i casi, perché ciò che è stato imposto a Lupi dovrebbe essere richiesto, anche, agli altri esponenti, la cui posizione – al momento – è più complessa di quella dell’ex-responsabile delle Infrastrutture.
Naturalmente, a decidere in tutti i casi sarà Renzi, il quale, nella doppia veste di Presidente del Consiglio e di Segretario Nazionale del PD, vanta un potere straordinario, che legittimamente intende difendere e mettere al riparo da eventuali ondate di antipolitica, che sulle questioni giudiziarie possono sempre attivarsi.
La situazione odierna, però, è ben diversa da quella di venti anni fa: all’epoca di Tangentopoli, un Ministro della Repubblica si dimetteva dal suo incarico un attimo dopo aver ricevuto l’avviso di garanzia, rinunciando sovente a carriere importanti e brillanti, come avvenne nel caso di Claudio Martelli, che, in un sol colpo, dovette rinunciare al posto di Ministro di Grazia e Giustizia ed alla Vice-Segreteria Nazionale del suo partito.
Oggi, invece, coloro che vengono raggiunti da provvedimenti della Magistratura o che ne vengono solo sfiorati, come nel caso di Lupi, si dimettono esclusivamente, qualora glielo chieda il Premier, il quale, ovviamente, agisce in funzione della difesa del proprio prestigio, nazionale ed internazionale.
Ad esempio, il caso Lupi, in verità perché cavalcato oltremodo dai mezzi di comunicazione di massa, ha creato un fortissimo allarme sociale, per cui il Premier ha provveduto, tempestivamente, a suggerire al responsabile delle Infrastrutture che, forse, sarebbe stato opportuno che si dimettesse, benché non risultasse, neanche, formalmente indagato.
Lo stesso allarme, invece, non si è creato nel caso dei quattro Sottosegretari, i quali, pertanto, non hanno nutrito alcuna paura - almeno, finora - di dover abbandonare il loro scranno governativo, mentre, nel caso del candidato del PD alla Presidenza della Regione Campania, siamo addirittura nella fattispecie opposta, visto che, nonostante la condanna di primo grado subìta, egli ha vinto le primarie, che quindi gli hanno attribuito una legittimazione popolare, che non avrebbe avuto, se non fosse passato attraverso il vaglio del voto interno al suo partito.
Pertanto, più che di un doppiopesismo nel senso tradizionale del termine, possiamo affermare che ci troviamo di fronte a delle valutazioni di natura discrezionale, che risentono molto fortemente degli umori della pubblica opinione, per cui, quando questa viene allertata, allora il Premier interviene repentinamente e rimuove la causa di eventuali fastidi per sé, senza alcuna esitazione, mentre, quando essa non si aziona, allora il personale politico, potenzialmente contestabile, può dormire sonni tranquillissimi.
Siamo di fronte, quindi, ad una situazione particolare: venti anni fa, la Giustizia – come ha sottolineato molto acutamente Antonio Polito – condizionava l’azione della politica, per cui qualsiasi provvedimento, assunto da un procuratore o da un gip, rappresentava una condanna immediata per il povero cristo che, a torto o a ragione, lo avesse subito.
Invece, oggi, la politica detta legge, per cui, quando un esponente è nel pieno della sua forza elettorale, può tranquillamente continuare a lavorare, finanche se raggiunto da azioni di natura giurisdizionale; in caso contrario, quando la pubblica opinione lo attacca duramente, allora l’arbitro di turno – in questi casi, sempre il Premier – lo scarica immediatamente per evidentissimi motivi di imbarazzo istituzionale.
Così, però, il meccanismo non può funzionare a lungo, perché, più si andrà avanti lungo un percorso simile, maggiormente si avvertirà l’eccesso di discrezionalità rispetto a situazioni che sono, invece, ampiamente comparabili fra di loro.
Infatti, di questo passo, il sistema di potere e di consenso, che sta creando il Presidente del Consiglio, rischierà di avere numerose crepe, nelle quali un oppositore coraggioso o un movimento politico qualunquista, che intenda far male al Premier, inevitabilmente si inserirà per mettere in rilievo l’incoerenza di atteggiamenti fin troppo discrezionali.
Allora, è sacrosanto che la politica si dia una regola universale e che quella sia valida per tutti, a prescindere dall’importanza della persona incriminata ovvero dalla gravità dei reati, che le vengono contestati.
Noi non siamo - invero - giustizialisti, per cui non crediamo che sia necessario chiedere la testa di un componente delle istituzioni al primo avviso di garanzia, che gli venga notificato, ma certo chiediamo che i principi, che la politica si è data, siano fatti rispettare da tutti, indipendentemente dal livello di consenso, che questo o quel rappresentante può, ancora, vantare nella società.
Se la legge Severino, ad esempio, prevede un automatismo di sospensioni e decadenze in base al grado di condanna subita, è giusto che i partiti regolino i loro statuti interni sul modello della legislazione vigente, perché non si può ipotizzare che lo Stato fissi una norma e che un partito, che è una mera associazione privata, possa avere delle regole diverse da quelle che lo stesso ha votato in Parlamento.
Se una condanna in primo o in ultimo grado può far sospendere o decadere un dirigente pubblico, è legittimo che la medesima pronuncia, da parte della Magistratura, possa produrre effetti analoghi verso questo o quel rappresentante politico, perché di fronte alla Giustizia il consenso, di cui una persona può avvalersi, non deve essere utilizzabile come arma grazie alla quale si può violare il più elementare dei principi di uguaglianza giuridica.
Se la politica farà un siffatto passo in avanti, se ne agevolerà ai fini della sua credibilità, visto che non si può decretare la condanna di un rappresentante istituzionale sulla base del suo livello di gradimento da parte della pubblica opinione: a volte, la piazza infatti può premiare persone che non ne meritano il consenso, così come può condannare altri che, invece, non hanno sbagliato, se non in buona fede, per cui non sono meritevoli di essere linciati, trattati come capro espiatorio ed esposti al pubblico ludibrio.
Il principio di uguaglianza è uno di quei valori, per noi, non negoziabili, per cui deve essere valorizzato in assoluto e non lo si può sottoporre alla scure dei sentimenti ondivaghi e parossistici del popolo, a meno che non si intenda governare il Paese sulla base dei sondaggi, che è atteggiamento, in verità, disdicevole e contrario allo spirito della nostra Repubblica parlamentare.
Saprà, quindi, Renzi riparare ad una condizione di evidente squilibrio, chiedendo alle personalità, di cui sopra, di fare un passo indietro - come ha fatto molto giustamente ed opportunamente con il suo ex-Ministro - senza per davvero guardare in faccia a nessuno?
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