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La Santa Sede e la questione palestinese

martedì, 19 maggio 2015 00:01

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Rosario Pesce
Nei giorni scorsi, la Chiesa Cattolica ha, ufficialmente, riconosciuto lo Stato Palestinese, rompendo così gli indugi dopo diversi anni nel corso dei quali, pur colloquiando informalmente con l’O.L.P., non aveva mai compiuto un passo tanto importante, per timore forse di rompere i rapporti diplomatici con Israele.
Ora, il dado è tratto: Abu Mazen ha, finanche, partecipato alla celebrazione del rito domenicale a Roma, in occasione del quale il Papa ha santificato due persone di origini palestinesi, quasi a voler così suggellare il nuovo corso dei rapporti politici con chi, legittimamente, è a capo di uno Stato - purtroppo - non legittimato dalla totalità della comunità internazionale.
È evidente che, dopo il passo decisivo della Santa Sede, anche altri Paesi europei procederanno a riconoscere, ufficialmente, i sacrosanti diritti dei Palestinesi in Terra Santa, per cui Israele verrà a trovarsi in una condizione di isolamento progressivo, non potendo più avere le mani libere, così come le ha avute negli ultimi due decenni, nel corso dei quali, nell’indifferenza generale, ha compiuto atti discutibili e tacciabili – probabilmente – di natura eversiva in rapporto all’ordinamento internazionale, che sono obiettivamente uno dei tanti motivi dell’irrisolto odio islamico verso l’Occidente.
Se si vuole sconfiggere, alla radice, le ragioni degli integralisti, è chiaro che l’Onu deve, a breve, fornire una risposta alle naturali aspirazioni dei Palestinesi, perché non si può immaginare, per lungo tempo ancora, il protrarsi di una pericolosa situazione in Medioriente, che non fa bene né agli Arabi, né ad Israele, che si troverà sempre più circondato da nemici, che potranno vantare - finanche - ragioni comprensibili da un punto vista morale, prima ancora che giuridico e militare.
D’altronde, non possiamo dimenticare che il Medioriente, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale e, quindi, all’indomani della decolonizzazione inglese, era saldamente nelle mani delle popolazioni di cultura araba, che hanno subito l’inevitabile ritorno dell’Ebraismo per effetto del consumarsi del progetto sionista, che ha sempre intrigato i ceti dirigenti di cultura anglosassone.
Oggi, inevitabilmente, le priorità divengono ben altre: per fermare l’Isis, non solo è opportuno riconoscere l’esistenza di uno Stato, che ha un’origine antichissima, ma in particolare è necessario che le potenze mondiali svolgano la loro giusta funzione persuasiva su Israele, affinché qualsiasi rigurgito di sionismo possa spegnersi a breve.
Peraltro, ai tempi della Guerra Fredda, la contrapposizione fra USA ed URSS alimentava, invero, la conflittualità in Palestina, mentre, in un contesto storico molto diverso, come è quello odierno, non solo dovrebbe cessare ogni elemento di contraddizione arabo-israeliana, ma soprattutto dalla Terra Santa dovrebbe partire una ventata di pacifismo non di circostanza, che sarebbe benefica per l’intera area nord-africana ed asiatica.
Non è un caso se, con l’elezione del nuovo Pontefice, la Chiesa ha deciso, giustamente, di inaugurare un processo, che dovrebbe avere un seguito con analoghe determinazioni da parte di altri Stati; anche, le indecisioni italiane, invero, non aiutano l’iter della pace, visto che, durante la cosiddetta Seconda Repubblica, pare che la politica estera del nostro Paese abbia compiuto infiniti passi indietro rispetto al filo-arabismo, tipico invece della stagione sia democristiana, che socialista, quando, prima, Mattei ed Andreotti e, poi, Craxi dialogarono con Arafat, ponendo drammaticamente il mondo occidentale di fronte alla cogenza della problematica palestinese.
D’altronde, qualche storico, forse vittima di dietrologismi, ha affermato che il crollo del sistema di potere democristiano e socialista fu dovuto proprio alla politica estera, che non era vista di buon occhio da Israele e, dunque, dagli Stati Uniti d’America.
Non vogliamo credere - almeno fino a prova contraria - ad una simile ricostruzione dei fatti del biennio 1992/94, ma non possiamo non mettere in rilievo come, nel corso dell’ultimo ventennio, sia la Sinistra, che la Destra siano state, in Italia, molto più sensibili alle ragioni israeliane, che non a quelle palestinesi, di fatto esponendo il Paese ad un rischio di attentati, che, nei decenni precedenti, non era stato affatto rilevato.
Forse, negli ultimi anni, siamo stati fin troppo deboli verso l’alleato nord-americano, per cui colpevolmente abbiamo rinunciato alla nostra autonomia tradizionale in politica estera?
Forse, le classi dirigenti italiane hanno avuto interesse a non crearsi nemici oltreoceano, piuttosto che a dar vita ad una nostra posizione ben riconoscibile e rispettabile al di fuori dei meri confini nazionali?
Certo è che siamo in attesa di una pronuncia formale del Parlamento, che riconosca ai Palestinesi ciò che è loro diritto naturale o, forse, Renzi è fin troppo impegnato nelle alchimie della legge elettorale e della revisione costituzionale, da non capire che uno statista è tale se, innanzitutto, è rispettato e temuto all’estero sia dagli alleati, che dai necessari interlocutori istituzionali?
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