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Una nuova infamia

sabato, 14 novembre 2015 18:08

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Rosario Pesce
Quella di Parigi è l’espressione più alta di una follia disumana: non si può, certo, perdonare chi ha messo in piedi una strage, i cui effetti vanno ben oltre l’arco temporale della diffusione della notizia avvenuta attraverso i media.
Colpire delle persone innocenti solo perché appartenenti ad un’altra religione o ad una cultura diversa dalla propria è un atto vile, che deve indurre alla riflessione quanti, finora, hanno sbagliato nel realizzare, solo in modo parziale, politiche dell’integrazione, che andrebbero piuttosto rafforzate e potenziate.
È ineluttabile che fatti, come quelli di Parigi, non aiuteranno invero la pace: finanche, le persone più sagge e prudenti, sull’onda dell’emozione, potrebbero essere indotte ad atteggiamenti vendicativi, che poco o nulla hanno a che fare con la costruzione di un mondo di pace e di una prospettiva compiutamente irenica per l’Occidente, che dall’11 settembre 2001 non riesce a trovare un equilibrio, almeno, accettabile.
Per la seconda volta consecutiva, nel giro di circa un anno, viene colpita peraltro la città più cosmopolita d’Europa, la capitale della cultura fra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, visto che l’essere stati, un tempo, il centro dell’integrazione rappresenta, agli occhi dei terroristi, un demerito e non una virtù, come invece dovrebbe essere.
Inoltre, non sfugge a nessuno il fatto che il destino, toccato in sorte oggi alla Ville des Lumières potrà riguardare domani anche città che ci stanno a cuore, non solo per un fattore di mero campanilismo: Roma, Napoli, Milano potrebbero sciaguratamente essere l’obiettivo delle prossime azioni del terrorismo islamico e, purtroppo, di fronte ad un’ipotesi siffatta, peraltro non peregrina, non abbiamo strumenti difensivi, che ci possano garantire adeguatamente.
Qualsiasi cittadino, non necessariamente di origini arabe, può – in nome di un distorto sentimento religioso – farsi saltare in aria, cingendosi il corpo con una cintura imbottita di tritolo.
Cosa possiamo fare per evitare un simile esito?
L’istruzione può e deve svolgere un ruolo essenziale nel difficile compito di integrazione di persone, che hanno diverso credo e differente considerazione della vita, propria ed altrui. Ma, basta?
Perché ciò possa accadere, è necessario che lo Stato metta a disposizione di tutte le scuole risorse vere, con le quali poter finanziare progetti volti all’integrazione sociale ed alla condivisione di valori comuni fra gruppi ed etnie, che altrimenti non avranno alcun altro strumento di interlocuzione fra loro, se non lo scontro continuo e permanente.
La nostra religione, quella cristiana, ha sempre insegnato la tolleranza e l’amore, concetti che chiaramente sono anni luce lontani dall’orizzonte di chi, uccidendo un “infedele”, crede di poter conquistare il Paradiso.
Nonostante una simile difficoltà, è chiaro che lo Stato, nel modo più laico possibile, non può non incentivare il dialogo fra prospettive ideologiche e morali, seppur, lontanissime fra loro.
Ne va della possibilità stessa, ad opera delle prossime generazioni, di contare su un futuro non gramo e non costruito all’insegna del conflitto ininterrotto; altrimenti, dovremmo ammettere che noi tutti, educatori e semplici cittadini, abbiamo posto le premesse per un secolo di storia ben peggiore di quello, appena, trascorso e ciò costituirebbe l’ammissione più evidente di una colpa vasta e diffusa, dai cui effetti nessuno in verità si salverebbe.
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