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La sconfitta dei sindaci “arancione”

martedì, 09 febbraio 2016 13:38

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Rosario Pesce
Cinque anni fa, sull’onda dell’esigenza del cambiamento, vinsero in molte città italiane i sindaci delle cosiddette liste “arancione”, che portavano un messaggio di rottura non solo con i vecchi gruppi dirigenti della politica italiana, ma si facevano assertori di un’istanza di rinnovamento, che è, ormai, insita nella società italiana sin dal 1992, pur non trovando mai effettivo appagamento.
Tali primi cittadini, eletti tutti in realtà metropolitane di grandissima importanza, da Napoli a Milano, da Cagliari a Genova, a distanza di un mandato, hanno segnato un arresto rilevante nella crescita del loro consenso, a tal punto che taluni, come Pisapia, hanno deciso di non ricandidarsi, mentre altri, come De Magistris a Napoli, pur accettando la sfida del secondo mandato, sono coinvolti in una campagna elettorale, che potrebbe avere, per loro, esiti non felici.
Un siffatto dato rappresenta la dimostrazione plastica di alcuni concetti importanti: innanzitutto, chi proviene dalla società civile non può non incontrare enormi difficoltà, quando si misura con la sfida dell’amministrazione, visto che la sola, robusta preparazione teorica non è di per sé sufficiente per mandare avanti complesse macchine burocratiche, quali sono i Comuni attuali.
Lo stesso ex-sindaco di Roma, Marino, era espressione di un’istanza analoga di rinnovamento e, nonostante le sue ottime intenzioni, oltreché un’onestà indiscussa, ha dovuto scontrarsi con abitudini inveterate, che lo hanno indotto ad essere dimissionato anzitempo, benché fosse nutrito, ancora, da una volontà di profondo cambiamento dei meccanismi della politica capitolina.
Infatti, è evidente che il vecchio ceto politico, quando a salire alla ribalta sono le espressioni del mondo professionale ed imprenditoriale, tende ineluttabilmente ad atteggiamenti di pericolosa chiusura ovvero di trasformismo, che rallentano l’azione innovatrice di chi, perfino in buona fede, si propone come il moralizzatore dei costumi pubblici e l’innovatore di pratiche di governo obsolete ed, in taluni casi, ai limiti della legalità.
È evidente che i partiti, fin troppo odiati dagli Italiani, erano invece non solo una scuola per gli aspiranti amministratori, ma fornivano a questi quell’opportuna classe dirigente, che può aiutare un leader a sbagliare il meno possibile ovvero a concertare con altri azioni, che possono avere effetti, altrimenti, deleteri sia in termini di consenso, che di efficacia ed efficienza dell’azione amministrativa.
Pertanto, si può dire, senza timore di smentita, che a volte si è gettato sia il bambino, che l’acqua sporca, cioè rigettando il vecchio sistema, costruito sull’onnipresenza dei partiti, di fatto si è dato vita ad un nuovo automatismo istituzionale, che forse lavora con risultati perfino peggiori del vecchio, visto che sono venuti meno gli aspetti (pochi!) positivi collegati alla partitocrazia, mentre quelli ineluttabilmente negativi, come la corruzione, non solo non stati eradicati, ma addirittura si sono accentuati, viste anche le vicende giudiziarie, che hanno coinvolto importanti Comuni ed Enti Locali, sparsi qua e là per la penisola.
Il meccanismo, però, dell’elezione diretta dei Sindaci e dei Presidenti delle Regioni ha compulsato un simile effetto perverso, perché ha conferito nuovo protagonismo a chi, eletto direttamente dall’elettorato civile, poi incontra difficoltà non irrilevanti, quando deve affrontare i problemi della programmazione e, soprattutto, dell’implementazione degli indirizzi amministrativi, sposati al momento della richiesta del voto.
Talora, si sono creati, in modo sempre meno utile per i cittadini, dei leader in posizione solitaria al comando, costretti a navigare fra i flutti del precedente cattivo governo e le esigenze di vasti strati della popolazione, che si atteggia sempre più tristemente come “cliente” e non come interlocutore, alla pari, della Pubblica Amministrazione e del potere politico, che ne è a capo.
Cosa fare, allora?
Purtroppo, il meccanismo presidenzialistico non solo non si è arrestato agli Enti Locali, ma si è, progressivamente, esteso anche alla politica nazionale, per cui, da più parti, si chiede che il Premier possa divenire il Sindaco d’Italia.
Una siffatta tendenza non potrà che creare ulteriori disagi e malfunzionamenti, quando naturalmente il Paese dovrà scontrarsi con problematiche così complesse, in riferimento alle quali le competenze esclusive del leader non sono sufficienti, meritando di essere integrate dalle giuste mediazioni, partitiche ed istituzionali, che gli automatismi di un tempo garantivano, invero, in modo più che soddisfacente.
Forse, per semplificare, si è distrutto un sistema, comunque, migliore di quello odierno?
O, forse, si è scoperto, con qualche anno di ritardo, che le complessità della buona politica e della corretta amministrazione non possono essere ridotte all’unicità di un’intelligenza, perfino quando questa può ritenersi brillante ed, almeno teoricamente, all’altezza dell’arduo compito?
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