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La morte di un regista

domenica, 11 gennaio 2015 16:16

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Rosario Pesce
La morte di Francesco Rosi chiude una stagione importantissima della cinematografia e della cultura italiana, visto che il regista napoletano è stato - fra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta - uno dei massimi intepreti del cinema di denuncia, sociale e politica, del nostro Paese.
Egli ha fatto parte di una generazione di nobili novantenni, che hanno frequentato il medesimo Liceo Classico, "Umberto I", dando poi lustro all’Italia, fra i quali ricordiamo lo scrittore Raffaele La Capria, il famoso giornalista Antonio Ghirelli ed il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
Tutti questi protagonisti della storia italiana hanno fatto parte di quella illuminata borghesia partenopea, che, aderendo al PCI nel corso degli anni immediatamente successivi alla fine del Fascismo o essendo, comunque, molto vicini alle posizioni del partito di Togliatti, hanno offerto il loro prezioso contributo alla crescita civile dell’Italia, peraltro facendo sì che la città di Napoli non cadesse vittima degli appetiti voraci dei movimenti qualunquistici e di estrema Destra, che - soprattutto intorno agli anni Cinquanta e Sessanta - raccoglievano il consenso amplissimo di gran parte del popolo partenopeo.
Infatti, Napoli - mai come in quel momento storico - fu lo specchio fedele dell’Italia, visto che il trionfante laurismo proiettava il capoluogo campano in una dimensione della politica e dell’etica pubblica, davvero, deformata e mortificante.
Non possiamo dimenticare che, ad esempio, l’armatore Achille Lauro, pur di acquisire consensi, non si faceva scrupolo di ricorrere a qualsiasi mezzo, in particolare realizzando una vera e propria compravendita dei voti su larga scala, approfittando dello stato di bisogno della plebe napoletana, che affollava la città e che - a volte - era priva degli strumenti essenziali per la sussistenza.
In quel corrotto sistema sociale e politico, l’unica forza, che aveva il coraggio di denunciare le deformazioni della vita pubbica, era il Partito Comunista, che aveva come suoi dirigenti personalità del livello di Giorgio Amendola e Napolitano e che poteva contare sul contributo di intellettuali, come Francesco Rosi, che - con la loro grande onestà e con la maestrìa tipica di abilissimi scrittori e sceneggiatori - erano in grado di fotografare una realtà, davvero, ai limiti della sostenibilità democratica.
“Le Mani sulla Città” fu la pellicola, che seppe evidenziare il degrado della vita urbana napoletana meglio di qualsiasi altro film, che pure venne realizzato successivamente: la città napoletana era nelle mani di cinici imprenditori, i quali avevano capito che la possibilità di sviluppo delle loro finanze private e dell’economia illecita del capoluogo campano era legata, indissolubilmente, all’edilizia privata, per cui bisognava avere in pugno l’Amministrazione Comunale, allo scopo di farsi disegnare piani regolatori ad hoc, che potessero dare via libera alla cementificazione barbara della città, contro qualsiasi legge urbanistica ed, in modo particolare, non tenendo conto del fatto che la città partenopea possedesse il più vasto centro storico italiano, per cui, distruggendo il tessuto antico, si rischiava di cancellare - in modo definitivo ed assolutamente improvvido - memorie architettoniche fulgide della Napoli, che era stata la capitale del Regno delle Due Sicilie.
Il laurismo fu un fenomeno eversivo, non solo perché fu determinante nel distruggere pezzi della Napoli ottocentesca e settecentesca, che non sono più visibili oggi al turista, ma soprattutto perché introdusse una mentalità deformata ed un’idea sbagliata del Bene pubblico: si intese, infatti, che il benessere di una comunità - peraltro complessa - derivasse dalla fame di danaro e di potere di centri criminali, formati da politici corrotti e da imprenditori disposti a tutto, pur di realizzare ingenti guadagni con il cemento e con la modifica della destinazione urbanistica di varie aree della città, che – nell’arco di poche ore – cambiavano la loro vocazione, divenendo terreni ad uso edile, mentre - per decenni - avevano avuto una finalità agricola.
In quell’ambiente, dunque, si muovevano politici di grandissimo valore ed intellettuali impavidi, che contrastavano, con i pochi mezzi a loro disposizione, il sacco continuo della città, sapendo bene che, comunque, aree importanti della Napoli, che fu, non sarebbero più esistite, perché sarebbero state sacrificate sull’altare di una nozione - per nulla accettabile - di sviluppo urbano.
E, poi, con la stessa maestrìa, Rosi passò a denunciare i misfatti della comunità nazionale, quando con il film sull’omicidio Mattei mise in evidenza le logiche criminali, che esistevano ai vertici della politica romana, che permise l’uccisione del Presidente dell’Eni, solo perché questi ambiva a rendere l’Italia, da un punto di vista energetico, autonoma dal famigerato cartello delle sette sorelle statunitensi, creando una collaborazione proficua - finanche in termini politici - con il mondo arabo, da cui l’azienda italiana acquisiva gli idrocarburi necessari per soddisfare la richiesta del Paese.
Quella fu la pagina peggiore della storia italiana e fu, invero, denotativa della diffusa logica criminale, con cui - in quegli anni - veniva governata l’Italia: i nostri Servizi Segreti deviati e la mafia parteciparono, in modo attivo, all’omicidio del Presidente dell’Eni, allo scopo di fare una cortesia agli Americani, che volevano eliminare un loro pericoloso concorrente, che poteva - con la sua politica energetica - creare danni economici rilevantissimi alle multinazionali del petrolio, per nulla disposte ad assistere al processo di autonomizzazione dell’Italia, come dell’Europa del Mediterraneo.

Rosi, quindi, esibì grande coraggio, oltreché straordinaria onestà intellettuale, nel denunciare i mali di Napoli, come quelli dell’Italia tutta, ben sapendo che - in quel momento - la potenza del suo cinema sarebbe stata, notevolmente, utile nel diffondere un’immagine del Sud e del Paese intero ben diversa da quella falsa, che l’ufficialità del Governo democristiano tentava, altrimenti, di offrire al pubblico, sia italiano, che internazionale.
Con lui va via, dunque, una voce autonoma del nostro panorama culturale del Novecento e della storia della Sinistra italiana: forse, l’ultima voce, che ha saputo dare espressione ad un’opposizione, che perdeva sistematicamente le elezioni, ma poteva contare su un consenso della pubblica opinione, molto più ampio di quanto non dicessero gli esiti elettorali, sia politici, che amministrativi.
D’altronde, questo fu uno dei mali italiani di quel tempo: da una parte, esisteva una volontà di cambiamento molto forte, indotta anche dalle opere degli intellettuali, ma – dall’altra parte – gli aneliti di rinnovamento venivano soffocati, perché poi i “clientes”, numerosi e determinanti in occasione del voto, decidevano le sorti del Paese, riaffidando Napoli e l’Italia alle stesse persone che – con sistematico dolo – ne avevano deciso i destini civili, barattandoli cinicamente al tavolo delle trattative con oscuri poteri criminali, nazionali ed internazionali.
Rendiamo, dunque, omaggio alla scomparsa del regista napoletano, non potendo non auspicare che il suo esempio venga seguito da altri giovani artisti, perché non è mai finito il tempo della denuncia e di un pensiero che - molto lucidamente - sappia mettere in risalto ciò che, sovente, viene deliberatamente sottaciuto.
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