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Le competenze del pubblico amministratore

domenica, 04 settembre 2016 17:18

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Rosario Pesce
La vicenda romana, con le evidenti difficoltà del nuovo Sindaco grillino nel gestire un Ente complesso, qual è il Comune della città capitale d’Italia, dimostra ampiamente come l’onestà, virtù fondamentale ed essenziale per un pubblico amministratore, non sia di per sé sufficiente per portare a termine, in modo dignitoso, l’incarico ricevuto dagli elettori.
Accanto all’onestà sono, infatti, richieste altre competenze, che da sole possono rendere possibile uno sforzo così qualificante: in primis, la conoscenza dei problemi e la scelta degli uomini migliori, con cui si può fare team; la metodica capacità di rapportarsi alle persone, sia in forma privata, che pubblica; infine, quella che a Napoli si chiama “cazzimma”, che serve in quantitativi industriali, quando si ha a che fare con individui cinici ed, in molti casi, privi di qualsiasi scrupolo, quali sono quelli che, quotidianamente, si rapportano, per motivi di lavoro, con un Ente pubblico.
A quanto pare, tutte queste virtù non si acquistano da un giorno all’altro: infatti, o madre natura te le fornisce, sin dai primi vagiti (cosa rara, invero), ovvero l’esperienza giornaliera deve servire come utile palestra per commettere il minor numero di errori possibili, che - in particolare - devono essere sempre reversibili, in modo tale che il danno possa essere, in qualche modo, riparato senza comportare costi eccessivi al funzionamento della macchina amministrativa o grave nocumento alla propria immagine di amministratori seri e compunti.
Nel caso romano, qualcosa è venuto meno, per cui la Giunta è in crisi appena due mesi dopo il suo varo: ciò testimonia che, se per un verso il ricambio delle classi dirigenti è cosa buona e saggia, per altro verso non si possono mandare allo sbaraglio persone che non hanno, ancora, la giusta maturità per ricoprire ruoli di grande responsabilità e, soprattutto, di rilievo nazionale, quale può essere la Sindacatura della capitale d’Italia.
Una riflessione, poi, va condotta su un aspetto specifico, tipico del lavoro del Primo Cittadino di qualsiasi Comune italiano.
Il potere politico, per sua definizione, è transeunte, perché è legato alla riconferma del mandato popolare ogni cinque anni; invece, i funzionari ed i dirigenti sono stabili nel loro ruolo, perché di carriera, per cui immaginare che un politico di prima nomina possa scalfire il potere e le competenze acquisite da un burocrate, che occupa il suo posto da decenni, ci appare - almeno - peregrino.
Anzi, sono i dirigenti a fare la fortuna dei Sindaci, perché, se onesti e competenti, possono serenamente assicurare la gestione, senza particolari ansie da parte del ceto politico, che – per legge – non dovrebbe distrarsi con le problematiche legate alla gestione, ma dovrebbe ambire a dare gli indirizzi, così come appunto prevede la norma in materia di divisione delle prerogative all’interno della Pubblica Amministrazione, emanata all’indomani di Tangentopoli.
Ci dispiace (e non potrebbe essere altrimenti) che un’esperienza, come quella della nuova Prima Cittadina di Roma, stia naufragando miseramente, ma certo i fatti romani devono essere di monito per chi aspira a candidarsi alla guida di un Ente Locale o di una P.A., indipendentemente anche dalle dimensioni territoriali e dal numero di cittadini, che si aspira a governare.
Amministratori non ci si improvvisa: lo si diventa dopo anni di formazione, teorica e sul campo, che devono prevedere un tirocinio vero ed autentico, anche perché, in caso di fallimento, non solo può esserci l’amara sconfitta elettorale come ultimo orizzonte, ma soprattutto ci si può imbattere su di un viale, che conduce dritti all’ufficio di un Pubblico Ministero, che svolge in modo attento, se non zelante, il suo lavoro di inquisitore dei pubblici costumi.
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