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Ritratto di un Presidente

mercoledì, 14 gennaio 2015 22:27

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Napolitano nel febbraio del 2014 al Parlamento europeo di Strasburgo
Rosario Pesce
L’uscita di scena di Napolitano impone una riflessione sulla sua figura, che – a nostro parere – ha dato grande lustro sia al partito, nel quale ha militato per decenni, sia allo Stato, di cui è divenuto una delle principali risorse, cui fare ricorso in tempi di crisi morale e politica.
Egli è stato, innanzitutto, un comunista anomalo, visto che si è sempre identificato nella componente amendoliana, quella cioè più marcatamente riformatrice e vicina al socialismo democratico della tradizione turatiana.
Infatti, a partire dal 1968, quando condannò l’invasione della Cecoslovacchia, da parte delle truppe sovietiche, egli è stato inviso alla Russia, in quanto era considerato il dirigente comunista italiano più vicino alle posizioni degli USA e del blocco occidentale.
D’altronde, anche nella dinamica interna di partito, è stato un assertore convinto del dialogo con il Partito Socialista di Craxi, quando i vertici del PCI erano, invece, fieri antagonisti del socialismo craxiano.
Per le sue idee, Napolitano è stato condannato ad interpretare un ruolo di minoranza nel PCI, anche se la funzione - cui assolveva - era nobile, dal momento che consentiva al Partito Comunista di avere un ponte con il mondo occidentale e con le potenze europee.
Non a caso, sia durante la Segreteria di Berlinguer, che quelle di Natta ed Occhetto, è stato il vero Ministro degli Esteri del PCI, sebbene a lui si contrapponesse - a volte, in modo finanche molto aspro - Cossutta, il quale era il dirigente che intratteneva i rapporti politici (e - forse - non solo) con l’Unione Sovietica.
Per la sua appartenenza al PCI, egli non è mai divenuto Presidente del Consiglio, visto che ai Comunisti era precluso l’ingresso al Governo, ma ha avuto modo di divenire, prima, Presidente della Camera e, poi, Capo dello Stato in due momenti storici, nei quali il berlusconismo era maggiormente in crisi e, quindi, le forze uliviste, capeggiate da Prodi, hanno avuto modo di assumere la guida politica dell’Italia.
Napolitano è stato, invero, anche un napoletano anomalo, dato che le sue caratteristiche di stile, molto diverse da quelle che l’oleografia assegna, generalmente, al cittadino partenopeo, hanno sempre contribuito a fornirne l’immagine di un uomo compìto ed algido e – pertanto – non racchiudibile nel cliché del Napoletano chiassoso e passionale.
Tale carattere è, invece, il frutto delle sue origini napoletane, visto che egli, come i suoi compagni di Liceo, da La Capria a Ghirelli, è stato allievo – in senso spirituale – del più grande filosofo italiano del Novecento, cioè Benedetto Croce, e quindi del Neo-idealismo, che il filosofo di adozione napoletana ha coltivato, per decenni, dall’alto della sua autorevolezza morale e teoretica.
Non a caso, Napolitano, come molti altri uomini di rilevante prestigio politico del Novecento, ha aderito al PCI, perché quello era il partito per definizione anti-fascista del nostro sistema istituzionale, ma né il nostro Capo di Stato uscente, né altri sono mai stati marxisti nel senso ortodosso del termine, dato che essi sono arrivati all’adesione al Socialismo liberale e democratico attraverso, appunto, la lezione del Neo-idealismo crociano, cioè della cultura filosofica – per definizione – antitetica al materialismo marxiano.
Non è cosa saggia delineare, ora, il bilancio della sua azione, in particolare di quella che ha realizzato nel corso dei nove anni trascorsi al Quirinale: è giusto che ci sia la necessaria distanza temporale, per dare l’opportunità agli storici di chiarire aspetti, che oggi sarebbero, ancora, leggibili con le lenti devianti della stringente competizione politica.
Certo, non è stato un notaio: ha dato alla sua funzione un peso rilevante, facendo sì che, effettivamente, la Presidenza della Repubblica divenisse il centro decisionale della vita pubblica del Paese, in un momento nel quale i partiti hanno visto, progressivamente, erodersi la centralità del loro ruolo nel Parlamento, come nella società italiana.
Egli si è dimesso per gli impedimenti legati all’età, ma invero non secondaria è la delusione, che ha provato, nel vedere il dipanarsi della vicenda partitica degli ultimi anni: la riforma costituzionale è, tuttora, “in mente Dei”, mentre quella della legge elettorale è in attesa di essere varata, molto probabilmente, dopo la nomina del suo successore.
È stato un pungolo continuo per i leaders della politica nazionale: nessuno può dimenticare il durissimo discorso, che pronunciò alle Camere, dopo la sua rielezione nella primavera del 2013, quando – con toni, insolitamente, molto forti – accusò le formazioni parlamentari di essere cadute in un atteggiamento deplorevole di inerzia e di sterile contrapposizione frontale, in nome - per lo più - di interessi meramente particolaristici, che poco o nulla hanno a che fare con le ragioni probe della tutela del Bene comune.
È stato, inoltre, per moltissimi anni l’autentico punto di riferimento italiano per l’Unione Europea e per gli Stati Uniti, visto che i Presidenti del Consiglio, che si sono succeduti di volta in volta, non hanno avuto – talora – né il tempo, né la credibilità giusta per divenire gli interlocutori del mondo occidentale.
Ancora poche settimane fa, egli è intervenuto, molto pesantemente e molto opportunamente, nella vicenda della nomina del nuovo Ministro degli Esteri, chiedendo con insistenza al Premier il nominativo di una personalità all’altezza del compito, contrariamente a quelli ventilati, che non avevano il giusto curriculum per assumere la delicata guida della Farnesina, a dimostrazione del fatto che non è mai stato prono alle volontà dell’Esecutivo a guida renziana.
Altresì, egli ha dimostrato di avere notevole spina dorsale, quando, subito dopo la condanna in via definitiva, inflitta a Berlusconi nell’agosto del 2013, sebbene richiesto e compulsato da più parti, non ha concesso la grazia al Cavaliere, che poteva fungere da deplorevole merce di scambio con il fondatore di Forza Italia, visto il contributo promesso da quest’ultimo per condurre in porto il processo riformatore.
Il toto-Presidente non ci intriga, dato che sarà lo sport meno gradevole della stampa nelle prossime settimane.
Non tocca a noi, certo, suggerire nomi papabili per l’elezione del prossimo Capo di Stato, ma altresì non possiamo, né vogliamo esimerci dall’auspicare che, con qualsiasi metodo esso venga individuato, il futuro Presidente della Repubblica possa avere il medesimo profilo politico-culturale di Napolitano ed, in particolare, analogo spirito di autonomia ed, almeno, pari autorevolezza internazionale.
Invero, siamo poco fiduciosi nell'operato delle odierne forze parlamentari, per cui temiamo che il modello Napolitano, da molti osannato, possa poi essere abbandonato rapidamente, quando i grandi elettori – in nome di interessi di dubbia legittimità – entreranno nella cabina elettorale, a Montecitorio, per designare la prossima funzione apicale della Repubblica.
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