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lunedì, 10 ottobre 2016 20:47 |
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Dal nostro inviato
Fabio Falzone
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Il 22 marzo 1933 Heinrich Himmler , capo della polizia di Monaco, aprì il campo di concentramento di Dachau. Nel discorso di apertura disse: Mercoledì 22 marzo 1933 verrà aperto nelle vicinanze di Dachau il primo campo di concentramento. Abbiamo preso questa decisione senza badare a considerazioni meschine, ma nella certezza di agire per la tranquillità del popolo e secondo il suo desiderio.
Dachau è una cittadina a circa 15 km da Monaco. Vi si arriva con la linea S2 scendendo poi alla fermata omonima. Appena fuori dalla stazione, proprio di fronte, fa capolinea l'autobus 726 che in poche fermate porta al memorial. Non viene chiamato “ex campo di concentramento”, ma memorial. Il campo fu infatti distrutto e poi riadattato nel 1955, per mostrare al mondo quale fossero gli orrori che vi erano stati perpetrati e quale fosse la struttura originale.
Quando si arriva, si viene accolti in una moderna struttura ad un solo piano, circondata da pareti costituite da una palizzata con grossi pali squadrati messi un po' verticalmente ed un po' inclinati, a poca distanza l'uno dall'altro. Questa disposizione già da l'idea di una prigione con le sbarre enormi. Comunque si può prendere con pochi euro una audioguida in italiano e poi ci sono bagni e bar-ristorante. Dove si mangia anche abbastanza bene.
Usciti da li si percorre un vialetto che porta al campo vero e proprio. E' stata realizzata una struttura che sembra un giardinetto pubblico. Ci sono persone che, con cattivo gusto, si fanno fotografare vicino alle lapidi commemorative come se fossero in un parco giochi. Turismo dell’orrore? Si.
Il vialetto che si percorre in mezzo a due filari di alberi, e in cui i bambini si rincorrono giocando e ridendo, è lo stesso che percorrevano i prigionieri avviati alle baracche, affiancati dai kapò (prigionieri con funzione di guardia) che li incitavano con urla e bastonate.
In fondo al vialetto ci sono, da una parte le strutture che ospitavano le SS, dall'altra si entra nell'area degli internati passando attraverso un cancello dalle grosse sbarre in cui è riportata la famosa frase Arbeit macht frei (Il lavoro rende liberi). La frase è tratta dal titolo di un romanzo del 1872 dello scrittore tedesco Lorenz Diefenbach.
Si ipotizza sia stato il direttore del campo ad avere la geniale idea di usare questa frase come tragica beffa verso i prigionieri che li furono ammassati. In una sola occasione, nei primi tempi della vita del campo, vi fu un gruppo liberato. Fu l'unico.
All'interno del campo sono state ricostruite due baracche per far vedere come si svolgeva la vita dei prigionieri. A seguire, una serie di strisce di terreno parallele tra loro (15 per parte) che ricalcano fedelmente la base delle baracche. Un bassissimo muretto circonda la base e l'interno è pieno di sassi. Queste strutture allineate, vicine, di cemento e sassi, danno l'angoscia a chi si immedesima nella situazione. Basta fermarsi un attimo ad un angolo per immaginare cosa devono aver provato le persone che arrivavano e che vedevano li materializzato il loro futuro. Dietro le finestre si intravedono le scaffalature di legno composte da piani sovrapposti che costituivano i loculi per dormire. Davanti appeso lo straccio che doveva fungere da asciugamano e la scodella per mangiare. Il lungo viale che divideva le baracche era quello della tortura. I prigionieri che dovevano essere puniti , venivano allineati distanziati e dovevano rimanere in piedi per ore, senza muoversi con i kapò che li sorvegliavano e li bastonavano se si muovevano o cadevano a terra. Ogni oggetto che si vede ricorda la sofferenza, il terrore che devono aver vissuto le persone li ammassate. Soggette ad una legge senza legge, alla furia omicida delle SS, alle privazioni più totali, all’azzeramento totale della dignità umana.
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Il campo, inizialmente progettato per 5000 persone arrivò alla fine a contenerne 10 volte tanto. Gli spazi furono ampliati, ma i prigionieri furono ammassati negli stessi spazi facendo dormire nello spazio per due anche 4 o 5 persone.
In fondo al campo, dissimulata tra gli alberi, una baracca in mattoni con un ben triste camino quadrato che esce dal tetto. Quando si entra all'interno si visitano alcune stanze veramente da incubo. In due ci sono ancora in originale i forni costruiti in mattoni refrattari praticamente indistruttibili. Forni che non erano “crematori” come comunemente si pensa, ma “inceneritori”. Fatti cioè in modo tale da poter funzionare a ritmo continuo, senza mai essere spenti con un consumo minimo di carburante ed una “produzione” massima. Le SS erano econome. Di fianco ai forni si trova la terribile stanza della doccia a gas e quella dove venivano fatti denudare i condannati. Gli abiti venivano poi disinfettati con il gas e passati ai nuovi arrivati.
In tutto questo orrore, ci sono alcuni risvolti che lasciano sbalorditi. Le SS avevano messo su un piccolo spaccio in cui i prigionieri potevano acquistare marmellata di cetrioli, sigarette e poche altre cose. Indubbiamente, per chi aveva i mezzi, era un modo per migliorare la vita nel campo. Le SS erano riuscite a lucrare ulteriormente su disgraziati destinati ad una fine atroce. Un'altra cosa che lascia basiti è che nel campo, una volta reso dagli americani ai tedeschi, ci fu gente che andò ad abitare nelle palazzine degli uffici e dei magazzini, incuranti degli orrori lì avvenuti.
Nessun cittadino del vicino paese osava fare nulla per contrastare ciò che accadeva li dentro. Il regime di terrore imposto dai nazisti ,era tale da far passare qualsiasi velleità di giustizia. Ma la città stessa guadagnava sul campo, vendendo materiale e commerciando con le SS che rivendevano i beni che sottraevano ai prigionieri.
Nel campo ci sono particolari originali del tempo. Il filo spinato speciale sostenuto da isolanti ceramici che poteva essere elettrificato. Il ponticello che collegava il campo alla casa dei forni. I mobiletti dei prigionieri ed i tavolini dove potevano mangiare.
Se si vuole visitare il memoriale per farsi permeare dall'atmosfera del campo e vivere un’esperienza che faccia capire al meglio possibile ciò che i prigionieri hanno vissuto, è meglio iniziare la visita dal museo.
All'ingresso viene distribuita una cartina con i punti di riferimento che si ritrovano nella guida. Però, se si inizia con il museo, si possono vedere le foto, gli oggetti e le memorie del tempo. La guida consente anche di sentire testimonianze originali di ex prigionieri. A Dachau non si va per svago, ma per capire cosa l'essere umano possa inventare per distruggere, umiliare ed annullare altri esseri umani.
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