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Nobel per la Letteratura a Bob Dylan: io lo canto così

giovedì, 13 ottobre 2016 20:58

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Mafalda Bruno
Flussi e riflussi storici: un Nobel anomalo ci ha lasciato (Dario Fo) e un Nobel anomalo è arrivato. C’era chi si aspettava il secondo dei due. Io, dylaniana incallita della prima ora, no. Non ci avevo mai pensato e me ne vergogno, quindi ho avuto un singulto di gioia ed orgoglio alla notizia che chi mi ha fatto sognare un mondo migliore da adolescente (ma anche da adulta) con Blowin’ in the Wind, Mr Tambourine Man, e Master of War, sia stato prescelto per il questo alto riconoscimento.
Piaccia o meno, le cose a Stoccolma stanno così: si sono convinti che testi di canzoni, come quelli letterari del Maestro Fo, possono essere annoverati a pieno titolo nella categoria “letteratura”. E chi, allora, meglio di lui, il menestrello del Minnesota, Robert Allen Zimmerman, in arte Bob Dylan, poteva essere il prescelto? Basta saperlo ascoltare, gustare a fondo, interpretare, e si capirà come la sua musica e i suoi testi meritino appieno di essere annoverati nel Gotha delle intelligenze eccelse dell’Accademia di Svezia.
La motivazione della scelta di Dylan è stata che ha saputo creare nuove espressioni poetiche all’interno della grande tradizione della canzone americana. La mia, molto più modesta motivazione, è che con lui e con le sue canzoni ho sentito, in adolescenza, un genuino impeto e forza di poter cambiare il mondo, ho sentito montarmi la rabbia per la guerra in Vietnam, la rabbia per il razzismo, per l’assassinio di Martin Luther King, e mi sono sentita a fianco della gente di colore e a sostenerli nella loro battaglia contro il razzismo.
Nella marcia per i diritti civili del 1963, grazie ai testi delle sue canzoni, mi sono sentita al suo fianco, seguendo il suo incedere dinoccolato, la sua cascata di capelli disordinati e crespi sotto il suo perenne cappello da cow boy, la sua chitarra a tracolla, l’armonica a portata di bocca; ho sfilato virtualmente vicina a Dylan ma anche degli altri due miti musicali di quei tempi, Joan Baez e Donovan.
L’armonica di Dylan, la sua chitarra folk e rock hanno cantato e narrato la cultura e il sentore popolare, lo stato d’animo della gente americana e non solo. Per cinquanta anni i suoi strumenti ci hanno trasmesso rabbia, tenerezza, voglia di essere migliori e di rifiutare radicalmente le ingiustizie sociali e le efferatezze dittatoriali del mondo.
Facciamo l’amore, non facciamo la guerra. Imbracciamo chitarre, non i fucili. Era il rèfrain di quella nostra epoca in cui in tutto il mondo impazzava la contestazione e saliva la protesta. E lui con il suo linguaggio, il suo modo di vivere e cantare, timido e schivo, ha saputo raggiungere tutti gli animi delle persone, vicine e lontane dagli Usa. Ha segnato la storia in un periodo concitato e agitato, e i suoi testi erano sempre mirati a un duplice scopo: denunciare ogni tipo di violenza e sopraffazione, e ribadire con forza la giustezza del rispetto dei diritti umani di ogni singolo individuo. Proprio quello che le mie orecchie volevano sentire!
Non so se eravamo solo dei sognatori ingenui. Forse lo siamo rimasti ancora oggi, ma credevamo in quello che cantavamo insieme a Dylan, ed era quella la nostra forza, il nostro impeto giovanile. E quello che conta, in definitiva, è il messaggio che il folk singer- menestrello - poeta ha trasmesso a chi lo ascoltava e seguiva anche dall’altra parte dell’oceano e ancora oggi ne celebra il talento: “tu resta fedele a te stesso, segui il tuo istinto, credi ai tuoi ideali, a quello che fai, gli altri capiranno se vorranno. E se non ti vogliono capire o sentire, tu suona più forte”.
Contaci Bob! Oh yes!
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