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sabato, 03 dicembre 2016 23:12

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Rosario Pesce
È, ormai, evidente che il NO ed il Sì siano vicinissimi e che pochissimi voti potrebbero decidere gli esiti della competizione referendaria, che si celebra il 4 dicembre.
In entrambi i casi, la storia del nostro Paese subirà una trasformazione molto forte.
In caso di vittoria del Sì, appare pleonastico sottolineare l’entità del cambiamento, visto che muta un terzo degli articoli della Costituzione, per cui, pur rimanendo in piedi l’impalcatura della democrazia parlamentare, i poteri dello Stato subiranno un riequilibrio in favore dell’Esecutivo, che potrà dettare i tempi ed i contenuti dell’azione del legislativo.
Per altro verso, invece, in caso di successo del NO, è ovvio che andremo incontro ad uno scossone politico-istituzionale, perché il Presidente del Consiglio non potrà non prendere atto dell’insuccesso che si sarebbe costruito, forzando la mano pesantemente su una vicenda, come quella della campagna elettorale referendaria, che poteva vivere più serenamente e, soprattutto, più da lontano.
Quindi, dal 5 dicembre la storia del nostro Paese, in ogni caso, subirà una svolta non irrilevante. È evidente che, anche in caso di bocciatura della riforma costituzionale, voluta dal Governo, il tema delle riforme non potrà scomparire del tutto dall’agenda del ceto politico italiano.
In primis, sarà necessario riformare l’odierna legge elettorale, per cui il Dicastero, che governerà il Paese a partire da lunedì, dovrà preoccuparsi di portare in Parlamento una proposta di riforma, che possa rendere agibili sia la governabilità, che la rappresentatività.
Ma, in particolare, se verrà sconfitto Renzi, bisognerà immaginare un’Assemblea Costituente, che, anche in breve tempo, possa fornire uno schema convincente di riforma dello Stato, che obiettivamente è necessaria.
Democrazia parlamentare o presidenziale?
Sistema elettorale maggioritario o proporzionale?
Centralismo o federalismo?
Saranno, questi, i quesiti intorno ai quali le Camere dovranno interrogarsi, magari immaginando che il nuovo Parlamento, che sarà eletto con le elezioni del 2018, possa avere un manifesto potere costituente, che quello attuale non ha.
D’altronde, una delle obiezioni dirimenti, che è sempre stata avanzata al Presidente del Consiglio, è stata quella di aver tentato di trasformare in costituente un potere costituito, sprovvisto peraltro della necessaria legittimazione, visto che le attuali Camere sono state elette con un meccanismo giudicato, in corso d’opera, incostituzionale dalla Consulta.
Certo è che, sin dagli anni Ottanta del secolo scorso, stiamo discutendo della “grande” riforma dello Stato, arrivando all’unico risultato dell’introduzione, nel 2001, del nuovo Titolo V della Costituzione, che è uno degli obiettivi che emenda l’attuale proposta Renzi/Boschi.
Ma, non si può non mettere in evidenza come, per disciplina istituzionale e per rispetto alla grammatica costituzionale, sarà opportuno che il nuovo Premier, che intenderà avviare il processo riformatore, non compia gli stessi errori di quello odierno, che forse hanno minato le possibilità di successo più di quanto non faccia il merito, pur opinabile, della riforma stessa.
Ma, per dire l’ultima, è giusto aspettare la conta dei voti effettivamente usciti dalle urne, perché si sa bene che i sondaggi – tanto più quelli non ufficiali, che stanno circolando in queste ore di pre-voto – sono ampiamente fallibili e per nulla attendibili.
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